Sono secoli che si studiano e si imparano le lingue straniere, e che alcuni si interrogano su quale sia “il metodo” migliore per imparare l’inglese.
Il continente europeo ha una tradizione bilingue, ovviamente: il volgare era la lingua parlata in casa, ma le persone colte usavano il latino per scambi scritti o anche orali di natura più formale. Sin dal medioevo, quindi, esiste una “tradizione glottodidattica”, finalizzata ad insegnare il latino.
Essendosi sviluppata sulla base di una seconda lingua scritta (e , se non morta, comunque pressoché cristallizzata), la glottodidattica tradizionale si basava sulla lettura, scrittura e traduzione.
L’apprendimento procedeva dalla regola grammaticale all’applicazione tramite esercizi scritti, e la finalità era portare il discente in primo luogo a leggere e tradurre dal latino, ed in seconda battuta a scrivere in latino. Del resto, i discenti non erano certo bambini, ma giovani colti che avevano decido di dedicare la propria vita agli studi (cosa assai rara e prestigiosa).
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Dalla didattica del latino a quella delle lingue moderne
Fu solo nel XVIII secolo, comunque, che si comincia a teorizzare una vera e propria base teorica per l’istruzione linguistica riferita ad una lingua straniera moderna, e l’ìdioma di riferimento a quel tempo era il francese, “lingua franca” della nobiltà cosmopolita.
I ragazzi venivano istruiti al francese in due maniere fondamentali: tramite l’educazione da parte di “tate” madrelingua (se ne trova traccia nei romanzi!), e quando erano più grandi venivano affidati a istitutori privati.
La glottodidattica del francese, benché la lingua fosse viva e moderna, ripercorreva le tappe dell’insegnamento della lingua classica, quindi era decisamente focalizzata sui compiti traduttivi e grammaticali.
C’era però da dire che i giovani rampolli spesso parlavano il francese come lingua madre (si pensi a Manzoni, o ai personaggi di Tolstoj), e che l’istruzione formale (grammaticale e traduttiva) era 1:1.
Inoltre, gli adulti parlavano e praticavano il francese in molti ambiti della vita mondana, quindi la lingua era sicuramente “viva”: sia in forma orale che scritta (le missive erano piu’ spesso in francese che in lingua madre, se vogliamo dare retta ai romanzi russi)
I metodi diretti
Nella prima metà del 900 si fanno strada i primi “metodi diretti” che sperimentano una maniera di procedere completamente diversa, particolarmente visto che la finalità dell’insegnamento era portare il discente a parlare in lingua fluentemente e quindi a pensare in essa.
Il metodo diretto (o meglio sarebbe chiamarlo “metodologia” o “approccio” visto che non prevede una procedura rigida ma riunisce sotto questo nome una serie di strategie che si possono adottare flessibilmente) è quello che è stato reso famoso dalle scuole Berlitz, nelle cui classi il docente non usa più la traduzione né la lingua ponte.
Durante gli anni prebellici e bellici, la necessità di addestrare spie e soldati a parlare la lingua del nemico stimola una serie di metodi innovativi, nei quali l’accento e la pronuncia hanno una importanza straordinaria.
Invece, la grammatica formale non viene più studiata, né i testi modificati/adattati. I materiali sono solo originali e la grammatica dovrebbe essere appresa dai discenti esclusivamente per via induttiva, ovvero chi impara dovrebbe farsi una mappa della grammatica partendo unicamente dalla pratica, senza alcuna mediazione. E’ il momento in cui si comincia a parlare di “docenti madrelingua”: nelle scuole Berlitz ad esempio gli istitutori erano sono solo madrelingua
I metodi strutturalisti
Dopo la guerra, si sviluppano svariati metodi di matrice strutturalista. I teorici sono quasi tutti psicologi, di matrice comportamentista (branca della psicologia che aveva avuto un grandissimo sviluppo, anche a livello di politica e propaganda: di fatto ora si era in grado di modificare e prevedere il comportamento dei discenti e si cerca di usare queste nozioni anche in classe)
- metodo audio-orale: con lo sviluppo dei sistemi audio, si assiste alla popolarità del primo metodo basato sulle registrazioni. Lo studente è estremamente passivo e viene sottoposto ad una serie di ripetizioni intensive di parole e frasi (chiamate “drill”, trapano), per fare in modo che il nuovo materiale “si incida” nella mente degli alunni, i quali dovrebbero automatizzare le loro conoscenze.
- approccio comunicativo: completamente diverso per filosofia, l’approccio comunicativo riunisce una serie di strategie volte a portare gli alunni ad imparare a comunicare. Vengono prese in considerazioni pronuncia, fonetica, grammatica, lessico, ma questi aspetti non vengono insegnati separatamente ma dentro al processo di comunicazione e in modo funzionale ad esso. Da qui vengono alcune cose che ci sono famigliari, come il fatto che le unità cominciano con un testo (di solito un dialogo) e gli aspetti “tecnici” (analisi grammaticale, del lessico…) partono dalla comunicazione messa come esempio di apertura e in sviluppo ad essa.
- metodo situazionale: fa parte di questa corrente, il fatto che il dialogo iniziale viene situazionato e si portano gli studenti a praticare tramite il “role play” (anche questo è ancora attuale). Il metodo comunicativo-situazionale dà una crescente importanza al fatto che gli studenti devono imparare tramite reali atti comunicativi (anche se mimati “per finta”)
- metodo funzionale: come dice la parola, si focalizza sulle “funzioni linguistiche”, ovvero alle intenzioni comunicative (chiedere info, fare conoscenza, sporgere un reclamo…) Ancora oggi i nostri libri di testo sono suddivisi per “funzioni comunicative” ovvero nell’indice potete trovare accanto alle regole grammaticali affrontate in ogni unit anche quali “funzioni linguistiche” sono presentate.
Possiamo ben dire che molte strategie e concetti del periodo strutturalista sono sostanzialmente sopravvissuti fino a noi.
Basta fare un giro nelle scuole secondarie o sfogliare un manuale per accorgersi della grande predominanza di questa routine: si comunica la unit con un dialogo o un testo, che viene letto ed analizzato collettivamente, successivamente il docente presenta la regola grammaticale target della unit (o la funzione comunicativa), poi la regola viene praticata in esercizi scritti, si passa successivamente alla pratica parlata).
Grande importanza viene data alla grammatica, praticata ancora con esercizi ripetitivi “drill”. La traduzione da una lingua ad un’altra è considerata uno strumento glottodidattico.
Questa metodologia, per quanto ovviamente diversa da ciò che facevano le istitutrici nell’800, non ha grande successo con i giovani e bambini che:
- non parlano la lingua target (i nobili dell’800 parlavano già francese e avevano molte occasioni di praticarlo, mentre i nostri ragazzi imparano la grammatica dell’inglese prima di saper parlare fluidamente la lingua e hanno poche chance di mettere in pratica)
- sono in classi numerose, con dislivelli nella competenza linguistica e nella maturità in generale
- sono costretti a rispettare una programmazione serrata, che non può rispettare le necessità individuali come tempistica e strutturazione (scaffolding).
I metodi strutturalisti si sviluppano con la scuola di massa, dopo la II guerra mondiale, e non tengono in considerazione il fatto che i bambini possono “non desiderare” di studiare l’inglese. E’ completamente assente il concetto di motivazione, personalizzazione e divertimento.
L’approccio umanistico affettivo
Una vera e propria rivoluzione, parallela alla rivoluzione “culturale degli anni 60-80, si ha con l’introduzione dell’approccio “umanistico – affettivo”: qui ciò che davvero cambia è il punto di vista del docente.
Il vero centro della lezione diventa l’alunno. i suoi bisogni educativi ed emotivi, la sua personalità e i suoi interessi. Ed il motivo di ciò è che si individua come motore dell’apprendimento la motivazione.
Inoltre, nell’educazione linguistica entra il concetto di multisensorialità: la lingua non è più solo un fenomeno parlato e scritto, ma uno dei componenti della comunicazione. Gli aspetti pragmatici e culturali vengono presi in considerazione, come quelli emotivi.
Si sviluppa la Total Physical response, che inserisce la comunicazione in un processo anche fisico (e nel quale non solo il gesto può aiutare la lingua, ma nel momento dell’apprendimento può anche sostituirla).
Si lavora per abbassare l’ansia: viene infatti scoperto che l’ansia e la paura di sbagliare bloccano l’apprendimento, perché il cortisolo che si riversa nel sangue quando siamo nervosi provoca agitazione, mancanza di concentrazione, memorizzazione labile e difficoltosa.
Quindi, si concettualizza per la prima volta che la lezione deve essere divertente, serena.
Dedicheremo un altro articolo a Krashen per approfondire, qui però ci soffermiamo sulla portata rivoluzionaria della sua SLA Theory (Second language Acquisition): Krashen distingue tra apprendimento consapevole, tramite studio, e acquisizione, spontanea (quella con cui abbiamo imparato la lingua madre)
Krashen teorizza che l’acquisizione linguistica spontanea sia la strada maestra per arrivare alla fluency, perché i meccanismi di acquisizione sono più stabili e profondi. Impariamo meglio quando impariamo senza sforzo, dall’ambiente circostante.
Tuttavia, questa strada è difficilmente percorribile in una classe perché richiede moltissime ore di esposizione alla lingua . Inoltre, spiega Krashen, non basta esporre il discente alla lingua, ma bisogna strutturare questa esposizione per fare in modo che il discente comprenda. In effetti, osservando la mamma con il bambino, l’interazione è finalizzata alla comprensione e alla interazione. Semplicemente ascoltare non basta: per noi ciò che non ha un appiglio pragmatico e comunicativo è semplicemente rumore.
Krashen inoltre fa delle ipotesi molto importanti sull’ordine con cui la lingua straniera va insegnata: la direzione va dal semplice verso il complesso, tenendo in considerazione che senza una struttura (“scaffolding” logica e pragmatica il discente non è in grado di capire. Questa indicazione di ordine e priorità di alcune strutture su altre è molto importante.
Per approfondire la Teoria di Krashen leggi qui
Approcci neurolinguistici
Negli anni 90, succede ancora qualcosa di nuovo e importantissimo: nasce il neuro-imaging e la possibilità di condurre gli studi sul cervello non solo dal punto di vista psicologico-comportamentale (gli studiosi di glottodidattica della seconda metà del 900 erano soprattutto psicologi), ma anche dal punto di vista neurologico.
Si comprendono moltissime cose potendo osservare come funziona il cervello tramite le tecniche visive: vengono completamente ribaltate alcune teorie precedentemente ipotizzate su “come” venisse processato il linguaggio, appreso il vocabolario e memorizzata la grammatica.
Gli anni 90 del 1900 (quindi , solo 30 anni fa!) sono l’alba della glottodidattica moderna, basata sull’osservazione reale del cervello e delle modalità con cui il linguaggio viene imparato.
Approfondiremo in articoli successivi alcuni degli assunti scaturiti da questa nuova consapevolezza neurolinguistica, particolarmente affrontando i principi di Rod Ellis.
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